Gli Schiavi di Hitler
Approfondimento di uno degli aspetti dimenticati della storia italiana, decine di migliaia di nostri connazionali sfruttati nelle fabbriche del Reich
“Raccontare poco non era giusto, raccontare il vero non si era creduti, allora ho evitato di raccontare.
Sono stato prigioniero e bon, dicevo.”
Dalle memorie di un internato.
La storia della deportazione di oltre seicentomila italiani da parte delle forze armate tedesche, la loro schedatura e internamento in “lager”, il loro massiccio impiego nella produzione bellica, nell’industria, nell’agricoltura, nei servizi da parte della Germania di Hitler, appartiene pienamente alla storia d’Europa, è comune a quella delle vittime del nazismo.
Quando nel corso del 1999 venimmo a conoscenza del progetto di risarcimento da parte della Germania del lavoro estorto forzatamente a milioni di schiavi deportati, ci rendemmo conto per l’ennesima volta, di come debole sia il comune senso storico di questo paese.
Certo la nostra attenzione non era casuale, trovava alimento nella esperienza di Giusto Perretta, fondatore dell’Istituto e prigioniero degli inglesi, colpito nella famiglia dal dramma della guerra e della resistenza, con un fratello segnato dall’internamento in Germania.
L’Istituto ha realizzato pubblicazioni, una mostra, un convegno. La nostra attenzione si è accentuata con la presidenza di Ricciotti Lazzero, che agli “schiavi di Hitler” ha dedicato una ricerca condotta fra gli archivi tedeschi e la memoria dispersa dei sopravvissuti alla deportazione e al tempo.
Un lavoro fondamentale di raccolta ed elaborazione di documenti è stato fatto in questi anni da Aned, Anei ed Anrp, opere significative sono state prodotte da pochi storici, per lo più legati agli Istituti della Resistenza e da ricercatori tedeschi. Questa attività non è riuscita a formare un senso storico comune.
Ricerca specialistica e paziente lavoro di raccolta da parte delle associazioni sono rimaste attività isolate.
Ragioni di opportunità politica, colpevoli rimozioni, hanno fatto sì che per cinquant’anni quello della deportazione e internamento di oltre mezzo milione di italiani sia stato considerato un fenomeno scomodo, “minore” rispetto agli altri drammi della guerra, una storia su cui gettare, al più, un fugace sguardo “pietoso”.
L’isolamento dello storico in questo caso trova una rispondenza nell’isolamento della memoria dei protagonisti, abbandonata e chiusa nel silenzio individuale.
Ricollegare le memorie individuali ci è sembrato quindi uno dei pochi strumenti a disposizione degli individui per rivendicare, prima ancora che marchi (il denaro non può comunque risarcire il furto di vita e di lavoro), il proprio ruolo nella storia d’Europa.
Da qui la nostra sollecitazione a raccogliere, conservare le memoria individuali: assieme formano un coro, diventano lo strumento più forte nella rivendicazione con la Germania, offrono strumenti allo storico e ai cittadini per comprendere meglio lo stesso nazismo, che non si può liquidare come fenomeno di pazzia, il cui studio più approfondito si impone mentre riappaiono i fantasmi con le loro lugubri simbologie.
Oltre seicentomila si valuta siano stati gli italiani deportati e internati nei lager tedeschi per essere utilizzati come manodopera schiavizzata nella produzione di guerra tedesca.
Deportati per andare a occupare, alla catena di montaggio, il posto delle generazioni ariane mandate a massacrare/arsi sui vari fronti, vissero un vero e proprio inferno in terra, inghiottiti da una spirale in cui precipitarono la Germania nazista e i suoi milioni di schiavi, un inferno fatto di fame, distruzioni, desolazione, bombardamenti, disciplina, morte.
Per questi uomini e queste donne, per questi civili e militari si aprirono solo prospettive di sopravvivenza, di resistenza.
E’ un’immagine dal di dentro di questo inferno quella che ci restituisce la memoria dei civili rastrellati sugli Appennini per sgomberare il fronte, nelle zone della prima Resistenza in Piemonte, per essersi imbattuti nei repubblichini mentre scendevano dal treno in un mattino d’estate, per aver scioperato insieme ad altre migliaia di operai, per non essersi presentati alla leva, per ritorsione verso un parente, oppure semplicemente ricattati per un motivo qualsiasi e poi ingannati.
I ricordi degli internati militari italiani “traditi, disprezzati, dimenticati” come li definisce lo storico tedesco Gerhard Schreiber, ci restituiscono la visione corale del disorientamento in cui piombò l’esercito italiano dopo l’otto settembre, il sentimento quasi di vergogna, lo spaesamento, scoramento in cui caddero questi giovani nati con il fascismo, cresciuti nella sua scuola, mandati a combattere sui vari fronti e infine abbandonati a sé stessi.
E’ la memoria di una coralità che nei lager prende coscienza di sé e della sua condizione, che sceglie di farla finita con il ruolo che le si vuole assegnare, che rifiuta le lusinghe dei fascisti, malgrado ciò comporti una condizione di schiavitù e di violenze,che esprime da subito la sua resistenza alla guerra e al nazismo.
E’ “l’altra Resistenza” di cui ci parla Alessandro Natta nel racconto della sua esperienza nel lager. Una scelta di massa che è una sonora sconfitta per il fascismo; il loro numero spropositato diviene comunque una indispensabile risorsa per la Germania; saranno sempre ingombranti per Mussolini.
Separati dal mondo, non assistiti dal diritto, né dalla Croce Rossa, svilupperanno una forte solidarietà per sopravvivere e resistere alla guerra nazista, rallentandone o sabotandone i meccanismi appena possibile.
Testimoni della tragedia ebraica, trattati appena sopra i russi nella gerarchia del Lager, a fianco di milioni di schiavi provenienti da tutta Europa.
Certo ci fu anche chi trovò condizioni più umane, chi fu aiutato dai tedeschi, chi lavorò in campagna, ma la pesantezza del lavoro di fabbrica e nelle miniere, l’impiego di massa nelle grandi opere di difesa orientali, le condizioni della detenzione in lager sparsi in tutta l’Austria e la Germania, le violenze e il disprezzo, rendono l’immagine di una Germania come grande unico lager e quello dei lager come sistema regolativo della manodopera coatta, “esercito del lavoro” nella guerra combattuta dalla borghesia industriale tedesca.
La fine pesantissima della guerra vedrà questo “esercito abbandonato” coinvolto nelle fine del nazismo, prigioniero dei russi, costretto a spostamenti letali, sottoposto a bombardamenti ogni giorno più pesanti, sempre più vittima della fame e delle malattie.
Si valuta in oltre quarantamila il numero di militari italiani deceduti nei territori occupati dal Reich durante l’ultima guerra. Imprecisato quello dei civili deportati: la pesantezza del loro internamento e sfruttamento determinò un’altissima mortalità.
Il ritorno penoso, rocambolesco o assistito, non offrì occasioni di riscatto: chi tornò lacero e sconvolto trovò una forte concorrenza sul mercato del lavoro, l’indifferenza di un paese che si stava riorganizzando, che voleva dimenticare al più presto la guerra, già immerso nella ricostruzione e in un nuovo quadro internazionale.
Lentamente i reduci si reintegrarono, contribuendo per la loro parte, da operai, contadini, manovali, artigiani, nel silenzio della memoria, alla ricostruzione del paese.
Storia di tanti, storia di proletari, di vittime della Grande storia, dei dimenticati dalla storia.